LA SPIAGGIA DI RABAT
Agosto. Spiaggia grande di Rabat. Dai torrioni possenti della Kasbah si
gode una vista che stordisce. Il mare, dopo un giorno impetuoso, ha fatto
pace con sé e con il mondo: una linea di rossetto macchia l’infinito e dalle
case arriva un amaro profumo di spezie cucinate. Nella dolcezza della sera si stempera la fatica del giorno e l’animo si rasserena.
Carne sulla griglia, mista a incenso e a misteriosi aromi, e il vento viene
verso le mura.
Sotto i bastioni il consueto spettacolo della spiaggia serale. Donne vestite
sedute sulla sabbia, ridenti, a bersi l’ultima, concessa luce, coppiette di
turisti che camminano lambendo l’acqua, l’arrivo delle barche a remi che
portano gli stranieri in vacanza da Salé a Rabat, per una suggestiva sera tra le case e i tavolini della città bianca e blu, percorrendo il braccio del fiume Oued Bou Rgegreb.
Ma lo spettacolo dell’uomo non è meno affascinante dello spettacolo della
natura. Centinaia di persone, uomini, ragazzi, bambini attendono senza
fretta che il sole si faccia mite per giocare a calcio. Decine e decine di
partite, decine e decine di palloni colorati o a scacchi, decine e decine di
porte fatte con le magliette e i pantaloncini.
La spiaggia diventa uno stadio popolare, uno spazio immaginario con
campi delimitati da un tacito assenso tra i giocatori. Non esistono linee, né
il fuorigioco, né i limiti dell’area. Tutto è uno spazio codificato dall’abitudine delle sere e degli anni. Ogni gruppo conosce il suo territorio diventato campo da calcio. Non si litiga. Tutti sanno dove stare, come se un notaio avesse rogitato per tutti, disegnando immaginari campi da calcio. Al tramonto, esiste solo il calcio, sulla spiaggia di Rabat. Il calcio e la passione per il calcio. Al termine della spiaggia c’è un impressionante cimitero con le tombe che lambiscono la battigia, una così vicina all’altra che spaventa il pensiero di quante persone la morte ha portato via. Partite di calcio con spettatori vivi e morti.
Aziz è un bambino di dieci anni e suo padre, che ci ha guidato fino alla
barca sulla sponda di Salè ce lo ha lasciato perché deve giocare a pallone
sulla spiaggia. Magro, gli occhi celesti da berbero delle montagne, con un
sorriso furbo da mercante arabo e un futuro da adescatore di turisti, parla
di Rabat e di quanto sia bella la città sotto la luna. Dice che giocherà fino al momento dell’ultimo passaggio in barca dello zio che lavora di traghetto.
Dice che gli piace giocare nudo, per non sporcare i vestiti di terra bagnata.
Poi farà il bagno nell’oceano e tornerà a casa profumato di sale. Impressiona nella sua affabilità e nel suo francese con parole improvvise in italiano.
Dice che sa scartare l’uomo come nessuno della sua età. Quando incontra gli amici prima di salutarci, è riverito come fosse arrivato un campione. La sua squadretta è stata sfidata da ragazzini della Medina, il quartiere antico.
Gli diamo una mancia e mette in tasca i soldi senza guardare, ma tastando ha già capito, che per la sua simpatia, ha già fatto giornata.
Lo osserviamo fare un gol e poi un altro, nudo tra i nudi, nudo tra i compagni vestiti con pantaloni e maglietta. Ogni tanto quando la squadra avversaria batte un calcio d’angolo, tasta i suoi pantaloni diventati un palo
della porta. I soldi sono sempre lì. Il piccolo Aziz corre nudo nel leggero
vento serale.
Noi ci avviamo nei misteri della antica città, travolta dal rosso delle nubi
sull’Atlantico, nel profumo intenso delle spezie dalle cucine aperte e nel
suono incantato di tamburi misteriosi dalle torri di guardia.
